Editoriali
Tra alt-right e lungotermismo, il sostegno delle big tech a Trump pone rischi che vanno al di là del risultato delle elezioni. Sotto attacco le fondamenta del sistema democratico. Il dibattito sulla tassazione dei super ricchi.
Le elezioni americane sono alle porte, e il risultato è quantomai incerto. L’election day del 5 novembre (50 milioni di americani sono già andati alle urne, servendosi dell’opzione voto anticipato) deciderà l’orientamento delle politiche statunitensi per i prossimi quattro anni, con un impatto significativo su quelle globali. Il tenore dello scontro tra Kamala Harris e Donald Trump, in particolare dopo l’attentato al tycoon, è stato molto acceso, sfociando spesso in attacchi diretti e senza esclusione di colpi che hanno diviso l’opinione pubblica e gli elettori.
Nonostante i dubbi sull’esito (qui un’interessante disamina di Ispi sui possibili risultati), uno dei segnali chiari che sono venuti dalla campagna elettorale è che una grossa fetta della Silicon Valley, considerata anni fa culla del movimento democratico, si è spostata decisamente a destra, finanziando pesantemente la campagna di Trump ed esponendosi pubblicamente nel sostegno all’ex presidente. Il caso che ha fatto più scalpore negli ultimi giorni ha riguardato la lotteria (secondo molti esperti “illegale”) indetta da Elon Musk, patron di Tesla, X (ex Twitter) e Space X, per favorire la vittoria del tycoon negli Stati in bilico (i cosiddetti swing states) a suon di “un milione di dollari al giorno”. La mossa di Musk è solo la proverbiale punta dell’iceberg di un movimento sotterraneo (ma nemmeno troppo) della Silicon Valley che per anni ha sostenuto politiche ultralibertarie e antidemocratiche. Questa netta svolta a destra del movimento tech ha varie radici e alcuni esponenti di spicco, che stanno cercando da anni di favorire la liberalizzazione dell’economia statunitense, ignorando deliberatamente le disuguaglianze che questa liberalizzazione porta con sé.
GLI ESPONENTI DELLA DESTRA-TECH. C’era una volta un’azienda tecnologica di giovani che lavoravano in un ufficio immerso nel verde con i tavoli da ping pong e una mensa gratuita ormai leggendaria. Questa azienda aveva un motto: “Don’t Be Evil”, non essere cattivo. E il mondo sorrideva leggendolo, si domandava cosa potesse mai fare di cattivo un sito internet tanto colorato. Passarono gli anni. L’azienda divenne sempre più ricca e potente, i suoi uffici ancora più labirintici e giocosi. Un giorno però il celebre motto venne sostituito con una frase più vaga e cauta: non più “Non essere cattivo” ma “Do The Right Thing”, fai la cosa giusta. Un nuovo motto relativista, ideale per un’azienda che si preparava a stringere accordi con il governo e l’esercito del suo Paese.
Questo estratto, tratto da un articolo di Rivista Studio sulla svolta a destra del movimento della Valley (e nello specifico di Google), inquadra molto bene la questione: da giardino anticonformista e hippie che propugnava idee di libertà e di uguaglianza (il saggista Richard Cohen lo definisce nel suo Almanac of american politics uno “stato d’animo emotivo, non luogo geografico”), la Valley è diventata negli anni, e soprattutto con i guadagni stellari, la roccaforte di un movimento tecnologico che vede nello Stato il nemico e nella logica capitalistica l’unica alternativa possibile a un mondo che sembrerebbe non avere più alternative.
Già nel 2009, Peter Thiel, celebre cofondatore di PayPal (insieme a Elon Musk) e attualmente presidente di Palantir Technologies, compagnia di analisi dei big data, scriveva: Non credo che libertà e democrazia siano compatibili… perché i sussidi concessi ai poveri e il voto alle donne, gruppi ostili in modo pregiudiziale alle idee libertarie, rendono impossibile la democrazia capitalista.
Thiel, oltre a essere molto vicino al vice di Trump, JD Vance, risulta tra i finanziatori più generosi della campagna repubblicana (che annovera tra gli altri, oltre a Musk, Antonio Gracias, nel consiglio di amministrazione di Tesla, il cofondatore di Palantir Joe Lonsdale e Doug Leone di Sequoia Capital, azienda di venture capital). A questo proposito Ian Ward, data analyst di Politico, ha recentemente scritto: Thiel propugna che le élite digitali non debbano sprecar tempo nella concorrenza commerciale, ma governare il Paese ed entrare nel futuro, predicando “Sognavamo automobili capaci di volare, non social media rissosi”. Le dichiarazioni di Musk sul tema elezioni sono state innumerevoli, e per raccoglierle tutte dovremmo dedicare un approfondimento apposito, ma quella che più ha fatto scalpore ha riguardato il post (cancellato poi dallo stesso Musk dopo qualche ora) pubblicato dopo la sparatoria a Trump: Come mai non sparano anche a Biden e Kamala?
Come scrive Gianni Riotta nel suo longform pubblicato su Repubblica sul tema, il messaggio è chiaro: Perché la rivoluzione tecnologica trionfi serve un’oligarchia dove maschi, bianchi, ricchi imprenditori coordinino la vita dei sudditi consumatori, senza che elezioni, giornalisti, tribunali, mercato rallentino con il loro fracasso burocratico l’Olimpo Tech. Delirio oligarchico che non si ferma certo a Thiel e Musk, considerati i capostipiti della cosiddetta “PayPal mafia”, il gruppo di ideatori di PayPal che, dopo averla venduta a eBay e aver fatto una valanga di soldi, si è frammentato, fondando o lavorando per YouTube, Tesla, LinkedIn, SpaceX, Square e Reddit. Nel 2007 il gruppo non si è fatto scrupoli nel posare per la rivista Fortune in pose da gangster.
Dicevamo comunque che la svolta a destra non si ferma alla coppia Thiel-Musk. David Sacks, miliardario filoputiniano della “PayPal mafia”, ha commentato l’attentato a Trump affermando: Voi di sinistra gli avete armato la mano. Curtis Yarvin, famoso blogger americano, ha detto che gli Stati Uniti d’America devono trasformarsi in una startup, governata da un amministratore delegato nazionale a Washington, Dittatore se volete, un Re che ripulisca il Paese, come il programmatore ripulisce il software dai bug, dagli errori. Timothy Mellon, imprenditore multimiliardario statunitense (che il 31 maggio ha versato nelle casse della campagna repubblicana 50 milioni di dollari, attestandosi come il più grande finanziatore dall’era Kennedy), ha dichiarato, parlando della sua giovinezza: A Yale ho studiato solo sbobba di sinistra a favore di tasse e welfare state. Per chiudere in bellezza, Laura Loomer, influencer dell’alt-right (ovvero l’estrema destra statunitense) molto vicina a Trump, ha dichiarato: Se eleggono Harris, Washington puzzerà di curry e spezie indiane.
Il quartier generale della destra filotecnologia, come ricorda sempre Riotta, è il Claremont Institute, think tank conservatore californiano che, dopo aver accusato di brogli elettorali Biden nelle ultime elezioni, ha parlato della rivolta di Capitol Hill come di una seconda rivoluzione americana e in un pamphlet intitolato “Project 2025” ha avvertito che la lunga marcia del marxismo culturale nelle istituzioni americane ha vinto. Il governo federale a Washington è un Moloch in armi contro i cittadini americani e i valori tradizionali, con libertà e diritti, sono assediati come mai nella storia.
Piccolo appunto: il discorso d’odio non esiste solo a destra. In risposta al movimento QAnon –gruppo politico dell’alt-right i cui membri sostengono una teoria del complotto secondo la quale esisterebbe un'ipotetica trama segreta organizzata da un presunto Deep State (un “potere occulto” ordito dai democratici) che avrebbe agito contro l'ex presidente Trump e i suoi sostenitori – è nato negli ultimi anni BlueAnon, che propugna a sua volta teorie del complotto filodemocratiche (per le quali, ad esempio, Biden sarebbe stato “drogato” prima di alcuni dibattiti con Trump per sembrare inabile a parlare). Reid Hoffman, cofondatore di LinkedIn e finanziatore della campagna di Kamala Harris, ha ammiccato alle teorie cospirazioniste di sinistra, commentando l’attentato a Trump in questi termini: Considerate la possibilità, che suona assurda, lontana e orribile in America, ma che è comune nel mondo, che la ‘sparatoria’ sia stata organizzata, e forse sceneggiata, da Trump, per avere le foto e il sostegno dei militanti. E secondo Morning consult, un terzo degli elettori democratici crede a questa teoria e pensa che l’attentato a Trump sia stato fondamentalmente inventato. La vera domanda è: quando abbiamo cominciato a considerare normale tutto questo?
IL LUNGOTERMISMO, OVVERO LA BATTAGLIA SUL FUTURO. Tornando agli esponenti dell’alt-right filotrumpiani, molti di loro hanno giustificato i loro orientamenti politici antistatali appoggiandosi a una teoria filosofica che, nel corso degli ultimi anni, ha fatto molto rumore: il “lungotermismo”. Ideologia promossa nel 2017 da William MacAskill e Toby Ord, due giovani studiosi dell’Università di Oxford, il lungotermismo si fonda sull’idea che bisogna pensare non solo al benessere delle generazioni di oggi, ma anche a quelle che vivranno in un futuro lontano. Questo movimento culturale è nato, come spiega Milena Gabanelli nel suo Data room, con lo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica per la sopravvivenza del pianeta. Ma è stato travisato e distorto dagli ideologi della Silicon Valley per ben altri fini.
Roberto Paura, presidente dell’Italian institute for the future, scrive in un approfondimento sul tema rilanciato da FUTURAnetwork che il lungotermismo potrebbe portare in alcuni casi a derive distorcenti, ad esempio: Tra la mitigazione di un rischio in grado di annientare il 99% degli esseri umani e uno che può annientarne il 100%, sarà sempre il secondo a dover avere la precedenza. Questo approccio genererebbe una singolare scala di priorità, nella quale per esempio il cambiamento climatico si situa più in basso dell’impatto di un asteroide, perché il primo non sembra essere in grado di portare la nostra specie all’estinzione, il secondo sì, benché il primo sia enormemente più probabile del secondo.
Queste conclusioni, però, non sono così nette, come ricorda sempre Paura. Ad esempio, nel suo saggio What We Owe the Future, libro-manifesto del lungotermismo, MacAskill difende i vantaggi della decarbonizzazione per il futuro della civiltà, e Ord, nel suo The Precipice, altro testo alla base della filosofia lungotermista, specifica che mentre l’impatto con un corpo celeste è dato a uno su 150 milioni, un rischio esistenziale prodotto dal cambiamento climatico è dato a uno su mille (indica comunque che il vero rischio per la nostra specie proviene dall’emergere di un’intelligenza artificiale non allineata ai nostri valori, con la probabilità di verificarsi di uno su dieci).
Il lungotermismo, nato come filosofia «altruista» che mette al centro la giusta battaglia per il benessere intergenerazionale, spiega Gabanelli, è presto diventato uno strumento del mondo tecnologico per legittimare i propri interessi. Tra questi, ad esempio, le enormi spese per la conquista dello spazio.
Tra salvare oggi le 733 milioni di persone che nel 2024 soffrono la fame e investire risorse pubbliche e private in una tecnologia innovativa, i lungotermisti non avrebbero dubbi. La tecnologia sarebbe quella che, in un futuro lontano, permetterebbe agli esseri umani di “colonizzare il Superammasso della Vergine”, il supercluster nello Spazio che contiene anche la nostra galassia. Insomma, rendere abitabili altri pianeti ci consentirebbe non solo di eliminare il problema della sovrappopolazione, ma anche di allungare l’aspettativa di vita della nostra specie di centinaia di milioni, se non miliardi di anni.
La lista dei finanziatori della “setta millenarista” del lungotermismo anche qui è molto lunga, e alcuni nomi si ripetono. Musk ha donato un milione di dollari al Future of humanity institute, centro di ricerca dell’Università di Oxford, mentre Dustin Moskovitz, cofondatore di Facebook, 13,3 milioni di sterline. Musk è anche consulente e finanziatore del Future of life institute, altra fondazione lungotermista che annovera tra i suoi più generosi donatori Vitalik Buterin, fondatore della criptovaluta Ethereum, che a inizio 2024 ha fornito all’istituto 665,8 milioni di dollari in moneta virtuale. Altre fondazioni sostengono la causa, come Global priorities Institute e Effective ventures, che si autodefinsice “una federazione di organizzazioni che si impegna per avere un impatto positivo sul mondo”. Le idee lungotermiste si stanno diffondendo anche nella politica internazionale, e sono state citate dagli ex premier britannici Boris Johnson e Rishi Sunak. Lo stesso filosofo Toby Ord, vate del lungotermismo ed ex consigliere di Oms, Banca mondiale e World economic forum, ha partecipato alla stesura di Our Common Agenda, il documento per le azioni globali sul futuro fortemente voluto dal segretario generale Onu António Guterres.
Sia chiaro: il lungotermismo non è di per sé un’ideologia sbagliata, anzi. Anche l’ASviS sta sostenendo ormai da anni l’importanza di orientare le politiche al futuro, e nel 2022 il principio di tutela delle future generazioni è stato inserito nei principi fondamentali della Costituzione italiana. La stessa firma del Patto sul Futuro – in cui i leader mondiali (inclusa Meloni) si sono impegnati ad attuare 56 azioni nei prossimi anni per non precipitare verso crisi devastanti – inserisce tra i suoi principi chiave la tutela delle future generazioni. Ma presa nel verso sbagliato, questa teoria potrebbe diventare una giustificazione ideologica per i progetti futuri dei colossi tech.
MOLTI SOLDI NELLE MANI DI POCHI. A forza di parlare di milioni (se non miliardi di dollari) investiti dai soliti noti (tra campagne politiche e progetti lungotermisti), un’ultima domanda sorge spontanea: com’è possibile che le loro finanze siano così illimitate?
Secondo il Rapporto Oxfam Inequality inc., dal 2020 i cinque maggiori miliardari del mondo hanno raddoppiato la loro ricchezza mentre quasi cinque miliardi di persone, ovvero il 60% della popolazione, si sono impoveriti. Ai ritmi attuali, dunque, ci vorranno 230 anni per porre fine alla povertà.
Le fortune dei cinque uomini più ricchi – Elon Musk, Bernard Arnault (proprietario dell’azienda di lusso Lvmh), Jeff Bezos (fondatore di Amazon), Larry Ellison (fondatore di Oracle) e il guru degli investimenti Warren Buffett – sono aumentate del 114% negli ultimi quattro anni, un +3,3 migliaia di miliardi di dollari rispetto al 2020. Mentre Oxfam richiede una “nuova era di azione pubblica”, un’altra indagine (condotta da Oxfam Italia) a tema “Gli italiani e la ‘grande ricchezza’” rivela che il 70% delle persone risulta favorevole alla tassazione dello 0,1% più ricco (i cosiddetti “super ricchi”) della popolazione europea. Un’opinione condivisa a livello globale.
Secondo il sondaggio condotto da Ipsos per conto di Earth4All e la Global Commons Alliance volto a intercettare le opinioni dei cittadini dei Paesi del G20, riportato nel Rapporto ASviS 2024, il 68% degli intervistati sostiene la proposta di un aumento delle tasse sul patrimonio per ricchi e super-ricchi, come strumento per trasformare l’economia e promuovere benessere diffuso. I valori più alti di questa opinione si registrano in Indonesia (86%), Regno Unito (77%) e India (74%), i più bassi in Arabia Saudita e Argentina (54%). Vicini al valore medio globale si trovano gli Stati Uniti (67%), la Francia (67%) e la Germania (68%). Di particolare importanza in questo senso, secondo l’ASviS, è il vertice del G20 che si terrà il 18-19 novembre a Rio de Janeiro.
Nei documenti preparatori alla conferenza, vanno segnalate le dichiarazioni programmatiche per la riduzione delle diseguaglianze, quella per il perseguimento di un’agenda per il lavoro dignitoso, la sostenibilità e la transizione giusta integrata con gli obiettivi per la parità di genere. Di particolare rilievo è stato il comunicato dei ministri delle finanze e dei governatori delle banche centrali del 26 luglio per rafforzare la cooperazione internazionale sulle tasse, con lo scopo di perseguire l’equità fiscale, salutato da alcuni come un evento “storico”. Si tratta infatti della prima volta che si è giunti a un accordo a livello internazionale sulla possibile introduzione di una tassazione globale più progressiva, anche per i cosiddetti super-ricchi (ultra-high-net-worth individuals), da definire nell’ambito della United Nations framework convention on international taxation cooperation. Se confermata nel summit di novembre, si tratterebbe effettivamente di un passo avanti sostanziale per creare sistemi fiscali più equi.
Il futuro è dunque un terreno di confronto (e scontro) per sua natura ancora apertissimo: il risultato delle elezioni americane darà sicuramente un orientamento, che non segnerà però forzatamente la direzione che prenderà il resto del mondo.
Come ricorda l’ASviS, per “Coltivare il futuro” (titolo dell’ultimo Rapporto dell’Alleanza) è necessario che ogni Stato attui con urgenza azioni concrete e trasformative per orientarci verso uno sviluppo pienamente sostenibile. Anche perché, come sottolinea il direttore scientifico Enrico Giovannini nella sua sintesi del Rapporto, “è l’unica strada possibile per costruire un futuro di speranza”.
Fonte copertina: Ansa (2024)