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Gli immigrati in Italia lavorano più dei nativi, ma sono precari e non specializzati
Secondo il nuovo rapporto Ocse-Commissione europea, il 60% degli immigrati residenti in Italia ha un impiego, rispetto al 58% degli italiani, ma svolge un lavoro poco qualificato, temporaneo e che mette a rischio la salute fisica. 18/12/2018
Quali sono le competenze, gli esiti nel mercato del lavoro, le condizioni di vita e il livello di inclusione sociale degli immigrati?
A fare un bilancio internazionale dell’integrazione degli stranieri - intesa come l’abilità di ottenere gli stessi risultati sociali ed economici dei nativi - è il Rapporto “Settling In 2018. Indicators of Immigrant Integration”, redatto dall'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) insieme alla Commissione europea. Il dossier, presentato a Marrakech durante la firma del Global Compact, presenta un confronto tra i Paesi dell'Unione europea, dell'Ocse e del G20, prendendo in considerazione le condizioni di vita, l’impegno civico e l’integrazione sociale degli immigrati.
Nel dossier, l’Italia, insieme a Grecia, Portogallo, Spagna e Cipro, fa capo alla lista delle mete di immigrazione recenti, che accolgono soprattutto stranieri provenienti dai Paesi extra-europei, con un’istruzione scarsa o non portata a termine. In questi Paesi di accoglienza, gli stranieri svolgono impieghi poco qualificati, sia per il basso livello di formazione pregressa, sia per il difficile accesso ai posti di lavoro specializzato.
A causa di queste caratteristiche di accesso, gli stranieri registrano spesso alti tassi di impiego, come nel caso italiano, in cui la percentuale di occupazione degli immigrati raggiunge il 60% rispetto al 58% dei nativi, contro una media europea del 67%.
I mestieri ai quali gli immigrati in Italia possono accedere sono poco qualificati, temporanei e mettono a rischio la loro salute fisica, come il lavoro nei cantieri, che impiega un uomo su due, e i servizi di assistenza alla persona e alla famiglia, svolti dalla metà delle donne straniere.
Inoltre, i lavoratori stranieri spesso non accedono a veri e propri contratti, lavorano in nero, rinunciando ai sussidi di disoccupazione e alle tutele previste per i lavoratori, e hanno scarse possibilità di ricevere gli stessi stipendi dei nativi e di uscire dallo stato di povertà relativa, che in Italia raggiunge il 40%: la percentuale più alta dopo la Grecia, ben oltre la media Ocse del 29%.
In Italia, come anche in Norvegia e in Islanda, gli immigrati hanno una possibilità tre volte superiore rispetto ai nativi di essere troppo qualificati per il lavoro che svolgono, evidenziando un fenomeno che riguarda tre milioni di persone in Europa - escluse la Gran Bretagna, l’Irlanda e l’Ungheria dove la manodopera straniera specializzata è molto impiegata - e otto milioni di stranieri nei Paesi dell’Ocse.
Per quanto riguarda i figli degli immigrati di età compresa tra i 15 e i 35 anni, in Italia, Gran Bretagna, Austria e Francia, le donne tendono a essere più occupate degli uomini, contrariamente a ciò che accade in Grecia, Spagna e Paesi Baltici - anche se in Italia la percentuale totale dei figli di stranieri Neet (Not in education, employment or training) raggiunge il 26% contro il 20% dei nativi. Una percentuale al di sopra della media europea che conta 850mila giovani non occupati e non impegnati nella formazione (il 17%), rispetto ai due milioni dei Paesi Ocse.
di Viola Brancatella