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Maggiore inclusività e metodologie comuni: ecco come l’Ipcc prova a rinnovarsi
Dibattito al meeting di Sofia sul funzionamento del Gruppo. I Paesi in via di sviluppo lamentano scarsa considerazione. Agli Stati insulari servono previsioni più tempestive. Accordo sulla necessità di nuovi meccanismi di partecipazione. 3/9/24
Come tutte le organizzazioni che si rispettino, anche l’Intergovernmental panel on climate change (Ipcc) si riunisce periodicamente per definire il programma di lavoro e, ogni tanto, pensare (o meglio ripensare) la propria struttura. Il suo articolato lavoro richiede un’attenta organizzazione e incontri semestrali o annuali, compresi all’interno di un unico “ciclo di valutazione” che dura per anni e porta soprattutto, ma non solo, alla produzione dei famosi Assessment report (rapporti di valutazione sui cambiamenti climatici). Una volta esaurito il compito del “ciclo”, vengono ridefiniti i ruoli apicali dei gruppi di lavoro, per dare il via a un nuovo ciclo. Nel luglio 2023, ad esempio, l’Ipcc ha eletto una nuova serie di leader, tra cui Jim Skea (climatologo del Regno Unito) come nuovo presidente. E da quel momento in poi sono partiti i lavori per il settimo ciclo di valutazione (AR7).
È stato proprio per ridefinire i mattoni fondamentali di importanza critica dei prossimi lavori, nelle parole di Skea, che l’Ipcc si è riunita a Sofia dal 27 luglio al 2 agosto. Le questioni in ballo erano molte, e si sono concentrate anche sul funzionamento stesso dell’organizzazione, facendo emergere le posizioni dei Paesi su alcuni temi cruciali.
Di cosa si è parlato a Sofia
La discussione più spinosa della settimana ha riguardato senza dubbio la definizione delle tempistiche di consegna del settimo Assessment report. Il documento di punta dell’Ipcc è infatti previsto per il 2029, ma in molti hanno richiesto che tutti i rapporti dei vari gruppi di lavoro vengano consegnati prima del Gst-2, il cosiddetto “Global stocktake”, meccanismo di valutazione dei progressi ottenuti a livello mondiale sugli Obiettivi dell’Accordo di Parigi, che si terrà nel 2028. La valutazione indipendente dell'Ipcc è considerata da molti una base critica essenziale per le discussioni in merito.
I presidenti dei gruppi di lavoro hanno provato a strutturare un programma per consentire il completamento dei report entro il 2028. Tuttavia, alcuni Paesi, tra cui Arabia Saudita, India, Cina e Kenya, hanno strenuamente contestato questo calendario. L’Arabia Saudita, ad esempio, si è opposta alla tempistica più breve, affermando che ciò avrebbe portato a rapporti dei gruppi di lavoro compromessi sia nel contenuto che nell'inclusività. Mentre la Cina ha sottolineato che l'AR7 mira a essere inclusivo e che agli scienziati dei Paesi in via di sviluppo dovrebbe essere dato il tempo di dare il loro contributo, aggiungendo che la fretta potrebbe portare a un lavoro scadente.
Di posizione opposta l’ex vicepresidente dell'Ipcc, Youba Sokona, che insieme a un gruppo di 40 autori Ipcc provenienti dai Paesi in via di sviluppo ha pubblicato una lettera per richiedere tempi più stringenti, commentando poi le sue ragioni su Climate Home News. Sokona ha sostenuto che garantire che il ciclo dell'Ipcc sia allineato con le tempistiche Gst è fondamentale per mantenere l'integrità della cooperazione internazionale sul clima, aggiungendo che, senza il contributo del Panel intergovernativo, il bilancio potrebbe mancare di una prospettiva essenziale.
Anche alcuni Paesi, tra cui i piccoli Stati insulari in via di sviluppo, hanno sollecitato una consegna anticipata, in modo da permettere ai vari rappresentanti di elaborare input adeguati al momento del processo di valutazione tecnica del Gst-2. Il contributo dell'Ipcc, hanno sostenuto, è cruciale per coloro che non hanno la capacità di produrre la propria ricerca e sono più vulnerabili agli impatti immediati del cambiamento climatico. Non avere i risultati degli studi in tempo ridurrebbe infatti la loro capacità di rappresentare le esigenze nazionali durante il Global stocktake.
I delegati dei Paesi in via di sviluppo hanno anche fatto emergere alcune preoccupazioni sulle sfide che le loro delegazioni devono affrontare nell’esaminare i report: in alcuni Paesi, infatti, uno o due studiosi sono responsabili di tutto il lavoro intergovernativo sui cambiamenti climatici, compito a dir poco oneroso, e che quindi richiederebbe più tempo del previsto. Le divergenze sul tema, come si può vedere, sono profonde e spesso anche contraddittorie: è giusto garantire più tempo agli esperti e ai governi per assicurare una partecipazione più ampia? Oppure assicurare che i Paesi più vulnerabili abbiano accesso alle informazioni scientifiche il prima possibile, per aiutarli ad affrontare tempestivamente gli impatti del cambiamento climatico?
La sera del primo agosto Skea ha osservato quanto fosse stato difficile trovare una soluzione che soddisfacesse tutte le delegazioni e ha proposto quindi di posticipare la decisione sulle tempistiche alla prossima riunione di dicembre 2024.
Altro tema molto caldo ha riguardato la definizione di metodologie comuni per stimare le emissioni e le rimozioni nazionali di gas serra. Si tratta di una delle principali responsabilità dell’Ipcc, in quanto facilita un’azione coordinata sul cambiamento climatico. Tuttavia, le opinioni si sono dimostrate divergenti, in particolare in merito all'inclusione o meno di conteggi comuni per idrogeno e particolato 2,5 (Pm 2,5), con alcuni Paesi (tra cui Algeria, Azerbaijan, Cina, India, Iraq e Arabia Saudita) che hanno sottolineato che la base scientifica per la loro inclusione non è sufficientemente solida. Questo problema potrebbe avere implicazioni per i conteggi nazionali ai sensi della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, si legge nel commento dell’Earth negotiation bulletin al convegno dell’Ipcc, in quanto una metodologia comune per stimare le emissioni è il primo passo verso la loro contabilizzazione. In assenza di consenso, il Panel ha deciso di tornare su questa discussione in futuro.
Un’altra sessione di lavoro ha approfondito il tema delle città. Il settimo ciclo di valutazione si sta infatti occupando di redigere un Rapporto speciale sui cambiamenti climatici e le città, che sarà presentato nel 2027. Obiettivo del documento è garantire ai policy maker un ampio accesso alle informazioni scientifiche di cui hanno bisogno per mettere in campo politiche urbane strutturate, in particolare per quanto riguarda le misure di mitigazione e adattamento. Le città contribuiscono al cambiamento climatico e sono particolarmente vulnerabili ai suoi impatti, ma variano notevolmente in termini di caratteristiche e sfide, riporta sempre l’Earth negotiation bulletin.
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Ottenere una visione condivisa su questo rapporto si è rivelato un compito particolarmente impegnativo. I delegati delle varie nazioni hanno infatti discusso tipologie e metodi per la classificazione delle città e l'equilibrio appropriato tra misure di adattamento e mitigazione. I dibattiti hanno inoltre evidenziato la necessità di tenere conto delle esperienze e dei contesti regionali e urbani specifici. Alcuni delegati, appartenenti in particolare all’area dei Paesi in via di sviluppo, hanno sottolineato che la distinzione tra urbano e rurale non è sempre chiara e difficilmente applicabile in alcuni contesti, citando ad esempio le grandi città “ramificate”, circondate da insediamenti informali molto popolosi. Le richieste di modifica sono state poi votate per essere introdotte nella bozza.
Un processo più inclusivo
L’unico tema su cui tutti i delegati si sono dimostrati d’accordo è stata la necessità di migliorare l'inclusività del lavoro dell’Ipcc, sia nel suo processo che nei suoi studi. Le discussioni hanno fatto emergere le sfide di lunga data affrontate da delegati ed esperti (in particolare dei Paesi in via di sviluppo) per la partecipazione al Gruppo intergovernativo, dall’ottenimento dei visti per partecipare alle riunioni, alla promessa, troppo spesso disattesa, di includere nel processo di analisi anche la ricerca scientifica dei Paesi in via di sviluppo. I delegati hanno quindi premuto molto per assicurare una base di conoscenze più ampia, che comprenda anche saperi indigeni e locali, oltre a studi provenienti da ricercatori più giovani.
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L'Ipcc non è estraneo a questo problema: l'inclusività è una sfida perenne, si legge nel commento dell’Earth negotiation bulletin. Per la riunione di Sofia è stato preparato un documento per affrontare il problema e un expert meeting sul tema è stato già predisposto per il 2025.
I presidenti dei vari gruppi di lavoro hanno assicurato che, durante la produzione dei prossimi report, saranno identificati argomenti e regioni sottorappresentate. Inoltre, sarà garantita una migliore accessibilità ai materiali, spesso difficoltosa a causa di problemi di traduzione e fonti (secondo alcuni delegati, l’intelligenza artificiale potrebbe essere molto d’aiuto, in questo senso).
Quindi, cosa ci rimane dopo la riunione di Sofia? Sicuramente un po’ di amaro in bocca per il mancato accordo su una questione di primaria importanza, come la definizione del programma di lavoro. Allo stesso tempo però, l’Ipcc sembra pronta a rinnovarsi, soprattutto per quanto riguarda i suoi meccanismi di partecipazione. Un cambiamento necessario, dal momento che gli Stati considerati a oggi meno influenti sono quelli che avranno più da dire (e da ridire) in futuro in materia di clima.
Fonte copertina: leonidsorokin, da 123rf.com