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Nature Restoration Law: ecco come restaurare la biodiversità in Italia
Un Rapporto del National Biodiversity Future Centre indica in che modo poter attuare la Legge, proponendo processi ed esempi di sperimentazioni. I benefici del restauro ecologico sarebbero pari a 1,86mila miliardi di euro entro il 2050. 4/4/2025
Il 17 giugno 2024, dopo un lungo iter durato due anni, il Consiglio dell’Unione europea ha approvato il testo definitivo della Nature Restoration Law. I singoli Paesi dovranno presentare alla Commissione, entro la metà del 2026, piani nazionali di restauro.
Per questo il National Biodiversity Future Center (centro di ricerca nazionale sulla biodiversità composto da 2500 scienziate e scienziati), con il Rapporto “Il restauro della biodiversità: esperienze e innovazioni della ricerca” presentato il 18 marzo in un evento promosso anche dall’Ispra e dal Ministero dell'Ambiente e della sicurezza energetica, intende supportare l’Italia nel raggiungimento degli obiettivi della Nature Restoration Law, indicando le procedure da seguire per restaurare la biodiversità e ristabilire le relazioni e gli equilibri tra gli organismi viventi grazie a solide conoscenze scientifiche e test condotti direttamente sul nostro territorio.
L’Italia, grazie alla sua posizione geografica privilegiata, è il Paese europeo con la maggiore varietà di specie viventi. Si stima che in Italia vi siano circa 85 differenti tipologie di ecosistemi e quasi 60 di queste non godono di buona salute. Ristabilire la funzionalità degli ecosistemi significa avere benefici come l’incremento della capacità di catturare e stoccare il carbonio, abbattere l’inquinamento e prevenire l’impatto delle catastrofi naturali. I benefici del restauro sarebbero pari a 1,86mila miliardi di euro entro il 2050 a fronte di un costo stimato molto più basso pari a 154 miliardi. È stato inoltre stimato che per ogni euro investito nel restauro ecologico ce ne siano dagli 8 ai 38 in ritorno.
Il restauro ecologico contro il degrado crescente degli habitat
Considerato il crescente degrado degli habitat marini e terrestri, proteggere gli ecosistemi non è più sufficiente. Pertanto, negli ultimi anni si è consolidata l’idea che sia necessario non solo ampliare la percentuale di oceani e di terre emerse da porre sotto regime di tutela, ma anche investire nel restauro ecologico, per favorire il recupero degli ecosistemi degradati o distrutti. Per questo, l’articolo uno della Legge impone di restaurare almeno il 30% degli habitat marini e terrestri non in buono stato entro il 2030, per salire al 60% entro il 2040 e arrivare al 90% al 2050.
Ma cos’è il restauro ecologico e come si differenzia dalla riabilitazione? La riabilitazione ha l’obiettivo di ristabilire un livello adeguato di funzionamento dell'ecosistema senza necessariamente ricostituire le condizioni originarie. Il restauro ecologico, invece, è l’intero processo di ripristino delle relazioni ecologiche fondamentali di un ecosistema degradato dall’azione umana, danneggiato o distrutto. L’obiettivo è quello di ritornare all'ecosistema originario e viene considerato completo quando la condizione di tutte le principali caratteristiche funzionali e strutturali delle comunità dell'ecosistema sono state restaurate e sono funzionalmente attive. Laddove non sia possibile tornare all'ecosistema nativo, quando ad esempio oltre all’alterazione della biodiversità c’è stata anche una perdita di habitat, è fondamentale individuare un modello di ecosistema compatibile con le caratteristiche ambientali dell’area da riqualificare.
Le azioni possibili
Per proteggere, conservare, gestire in modo sostenibile e restaurare ecosistemi naturali e modificati, le Nature-based Solutions (NbS) rappresentano uno degli strumenti concreti di maggior valore. Anche gli interventi di auto-recupero possono essere attuati, ma spesso richiedono tempi molto lunghi ed è necessario valutare se siano sufficienti e adeguati alle aspettative. La rigenerazione naturale, chiamata anche “restauro passivo", è spesso l'approccio più efficace e sostenibile, sia dal punto di vista biologico-ambientale, sia economico. Tuttavia, quando il potenziale di rigenerazione naturale è assente, lento o incompleto, è necessario operare processi di reintroduzione e/o potenziamento di specie o popolazioni depauperate attraverso interventi di “restauro attivo”. Si possono individuare dunque tre modelli di azione principali:
- Rigenerazione naturale (o spontanea): quando i danni sono relativamente bassi, oppure dove si stimano tempi rapidi di auto recupero e popolazioni non troppo frammentate per permettere la ricolonizzazione, è possibile sfruttare la biodiversità presente per recuperare l'ecosistema dopo l’eliminazione (o la mitigazione) dei fattori di disturbo. Questo può includere, ad esempio, la rimozione della contaminazione, del sovrapascolo, della pesca eccessiva, di fattori che determinano la restrizione dei flussi d'acqua e dei regimi di fuoco inappropriati.
- Rigenerazione assistita: il restauro, in caso di degrado intermedio, richiede la rimozione delle cause locali e interventi attivi per correggere le alterazioni. Esempi di interventi includono il rimodellamento dei corsi d'acqua e del suolo, il restauro dei corridoi ecologici forestali e di passaggio dei pesci negli estuari e lungo i fumi, il controllo delle specie esotiche invasive e la reintroduzione supplementare di specie che non possono migrare.
- Ricostruzione: dove il danno è elevato, le cause del degrado devono essere rimosse o mitigate. Devono essere considerati e corretti tutti i danni riportati. In alcuni casi, potrebbero essere condotte azioni di reintroduzione delle specie/popolazioni, che dovranno poi essere messe in condizione di interagire all’interno delle comunità presenti e con l’ambiente per generare relazioni funzionali. In alcuni casi, queste azioni devono essere reiterate nel tempo fino al raggiungimento della piena stabilità. In tali casi, è necessario immaginare una successione di ecosistemi che partono da quelli meno complessi e via via si accrescono verso la condizione di massima complessità.
La pianificazione dei progetti di restauro ecologico
Il Rapporto, sulla base di un’attenta analisi della letteratura scientifica e di sperimentazioni replicabili eseguite e raccontate nel documento, ha definito un modello operativo per la realizzazione di progetti di restauro ecologico composto da cinque fasi:
- valutazione: si parte dall’indagine tecnica dell’area, utile a definirne le criticità e comprendere come procedere. In questa fase si prevedono analisi ambientali, della biodiversità e previsionali;
- pianificazione e design: in questa fase si susseguono, in maniera sequenziale, diverse azioni: la definizione del target di riferimento coerente con le potenzialità locali e degli ecosistemi naturali compatibili con il contesto ambientale; la progettazione operativa e l’individuazione dei target misurabili intermedi; infine, il piano di intervento, utile a descrivere come, dove e chi effettuerà gli interventi;
- implementazione: si protegge dunque il sito di intervento da eventuali danni causati dalle azioni di restauro, si supporta l’attivazione di processi naturali e si coinvolgono e informano gli stakeholder interessati dall’intervento;
- monitoraggio e valutazione: è l’azione grazie alla quale si riesce a determinare se le attività sono state implementate come pianificato, se sono stati raggiungi gli obiettivi (identificando il grado di recupero) e se ci sono stati effetti (sia postivi che negativi) ecologici, culturali o socio-economici derivanti dalle azioni messe in campo;
- gestione e manutenzione post-implementazione: forse il tema più complesso perché l'organismo di gestione è responsabile della manutenzione continua per prevenire impatti deleteri. Deve dunque svolgere il monitoraggio post-completamento del progetto per evitare una regressione a uno stato degradato.
di Tommaso Tautonico
Copertina: Unsplash