Editoriali
Mezzo Pianeta potrebbe andare alle urne con convinzioni maturate sulla base di notizie false sempre più orientate a mistificare le soluzioni alla crisi climatica. L’Agenzia per l’ambiente: l’Ue rischia danni catastrofici.
Disinformazione, misinformazione, greenwashing, fake news e le più recenti “false verità” nascoste dietro al termine di fake truth. Negli ultimi anni abbiamo assistito, quasi inermi, al proliferare di una serie di attacchi sul piano mediatico che intendono mettere in dubbio le basi scientifiche su cui poggia il processo di transizione energetica ed ecologica. Si tratta di una prassi ormai consolidata e ben radicata, anche nel nostro Paese, che banalizza non solo il motivo per cui occorre, per esempio, decarbonizzare la nostra economia, ma anche la qualità e l’efficacia delle soluzioni proposte dalla comunità scientifica. Un attacco a 360 gradi che ha il duplice effetto di rallentare una già lenta transizione, e disinnescare la sensibilizzazione legata allo sviluppo sostenibile che, nello scenario auspicabile, dovrebbe invece diffondersi a una velocità tale da generare una pandemia di buone pratiche.
Prendiamo il caso del cambiamento climatico, argomento trattato in modo quantomeno controverso. Nel corso degli anni le fake news sul tema si sono evolute: si è passati dal mettere in discussione la veridicità dell’aumento della temperatura a esprimere forti dubbi sulla possibilità che l’uomo sia in grado di modificare l’andamento climatico. In realtà, anche sul secondo punto, la comunità scientifica è stata chiara: è vero che sul nostro Pianeta si sono alternati una serie di cicli del clima nel corso di migliaia di anni, ma il punto è che dalla rivoluzione industriale a oggi abbiamo immesso talmente tanta CO2 in atmosfera da diventare il fenomeno da cui dipende la chiara accelerazione della crisi climatica. In sostanza, l’attività antropica sta pericolosamente modificando quella nicchia climatica che ha consentito lo sviluppo della vita e delle società come oggi le conosciamo.
Le emissioni gas serra sono protagoniste di ulteriori mezze verità. Lo scopo è quello, non tanto velato, di ridimensionare le responsabilità che i Paesi hanno avuto nell’amplificare la crisi climatica per ritardarne l’azione. È il caso del contributo dato dall’Europa al riscaldamento globale, dove viene continuamente ricordato che il vecchio Continente contribuisce “solo” a circa il 7% delle emissioni globali di CO2. Un dato veritiero ma su base annuale, che non racconta le responsabilità che i diversi Paesi hanno avuto nel far aumentare la temperatura media del Pianeta di quasi 1.5°C rispetto al periodo preindustriale. Se parliamo infatti di emissioni cumulate, l’Unione europea (a 27 Stati) per responsabilità storiche si colloca al secondo posto con circa il 17% dei gas climalteranti rilasciati in atmosfera. Primi gli Stati Uniti, con circa il 24% delle emissioni, terza la Cina con il 15%. Altro motivo per cui Europa e Italia sono chiamate a fare la propria parte lo ritroviamo nell’analisi delle emissioni pro-capite. Da questo dato emerge che le emissioni di un italiano non sono poi così lontane da quelle di un cinese: nel 2022 il primo ha rilasciato in media 5,73 tonnellate di CO2, il secondo 7,99 tonnellate. Il tutto, mentre un abitante deli Stati Uniti immetteva la bellezza di 15,95 tonnellate di CO2. Senza dimenticare che tanti beni prodotti altrove vengono consumati in Europa: a chi andrebbero conteggiate quelle emissioni? Insomma, siamo di fronte a un discorso ampio e complesso, che non può essere sintetizzato con un mero slogan.
Da diversi mesi è poi in atto una campagna mediatica tesa a denigrare le soluzioni proposte per la lotta alla crisi climatica. Dall’elettrificazione alle Nature based solutions (NbS) per rispristinare lo stato di salute degli ecosistemi, il polverone mediatico si sta alzando su ogni aspetto che tocca lo sviluppo sostenibile. Pensiamo alla direttiva sulla prestazione energetica nell’edilizia, nota anche come direttiva europea “case green”, approvata qualche giorno fa in plenaria a Strasburgo. Un esito della votazione che non era affatto scontato, visto lo scetticismo che circolava, in particolare sull’obbligo di intervenire sugli immobili residenziali con le prestazioni energetiche peggiori (portandoli almeno in classe E entro il 2030 e in classe D entro il 2033) e sulla messa al bando delle caldaie a gas. Il testo attuale, che sancisce che gli Stati membri devono ridurre il consumo medio di energia primaria degli edifici residenziali del 16% entro il 2030 e del 20/22% entro il 2035, appare poco ambizioso sul contrasto ai gas serra prodotti da un settore residenziale che, ricordiamo, pesa per un terzo del totale delle emissioni dell’Unione europea.
E pensiamo all’auto elettrica, altro argomento che gode di parecchi detrattori sul piano mediatico, e molto dibattuto anche in sede Ue. Partendo dal presupposto che oltre a passare a una mobilità a zero emissioni dovremmo ridurre il numero di auto circolanti, magari grazie all’intensificazione del trasporto pubblico, l’auto elettrica in questo momento resta la migliore soluzione per decarbonizzare i trasporti leggeri. Certo, c’è ancora molto da fare sull’infrastruttura e occorre tutelare i posti di lavoro del settore automotive durante la fase di transizione, ma non si può negare che la trazione elettrica abbia diversi vantaggi. Non emette, per esempio, biossido di azoto (BO2) e particolato (Pm 2,5 e Pm 10) che rendono insalubre l’aria che respiriamo. Inoltre, parlando di clima, se consideriamo l’attuale mix energetico, già oggi l’auto elettrica impatta molto meno sul riscaldamento globale delle vecchie tecnologie. Come ricorda lo studio “Determining the environmental impacts of conventional and alternatively fuelled vehicles through Lca” della Commissione europea basato sull’intero ciclo di vita del veicolo (dall’estrazione di materie prime alla produzione, dall’uso del veicolo allo smaltimento): poste a 100 le emissioni di CO2 rilasciate durante l’intero ciclo di vita di un’auto a benzina, quelle del diesel sono pari a 85 mentre quelle di una macchina elettrica sono pari a 45 in base all’attuale media europea (e l’Italia si colloca esattamente su questa media). Un vantaggio destinato a crescere via via che, per esempio, le rinnovabili aumenteranno il proprio peso nel mix elettrico (oggi nel nostro Paese quasi il 40% dell’energia elettrica è prodotta da fonti rinnovabili).
In generale, quando si parla di elettrificazione, si dimentica che siamo agli albori di un processo di democratizzazione dell’energia, e le comunità energetiche sono in questo un esempio lampante. Il passaggio da pochi grandi impianti di produzione di energia alimentati da combustibili fossili a tanti piccoli impianti sparsi sul territorio, rinnovabili e partecipati, influisce in modo positivo sulla coesione sociale e combatte la povertà energetica. Un tema, quest’ultimo, trascurato dall’informazione, nonostante sia una forma di disuguaglianza in continua crescita, anche in Italia, dove quasi il 10% delle famiglie con minori vive questa condizione.
Ma democrazia e (cattiva) informazione hanno un collegamento ancor più forte e pericoloso. Allargando lo spettro d’analisi ci accorgiamo infatti che le fake news si sono insinuate nel tessuto democratico della società moderna. Questo fenomeno, alimentato dalla rapidità della diffusione online e dalla mancanza di una regolamentazione efficace, ha assunto proporzioni enormi, tanto da influenzare i processi decisionali in tutto il mondo. Inoltre, le pratiche di disinformazione spesso mascherate da fonti “credibili” o travestite da opinioni personali, si infiltrano nei canali informativi e distolgono la percezione della realtà. Sfruttando la vulnerabilità delle persone, le false notizie possono indirizzare il consenso pubblico verso ideologie estreme, dividendo le comunità e indebolendo il tessuto sociale. In un contesto democratico, basato sulla partecipazione informata e sulla competizione di idee, le fake news fungono dunque da un veleno che può corrompere il dibattito pubblico e compromettere l'integrità delle elezioni.
In questo senso, un allarme arriva dall’ultimo Global risk report rilasciato dal World economic forum. Secondo lo studio la disinformazione e la misinformazione (diffusione di notizie false in modo involontario) sono la principale minaccia che il mondo deve affrontare nei prossimi due anni (restano invece i rischi naturali la principale minaccia nell’arco del prossimo decennio).
“Mentre circa tre miliardi di persone si dirigono alle urne in diverse economie (tra cui Bangladesh, India, Indonesia, Messico, Pakistan, Regno Unito, Unione europea e Stati Uniti) nei prossimi due anni, l’ampio uso di disinformazione e manipolazione dell’informazione, e degli strumenti per diffonderla, potrebbe minare la legittimità dei governi appena eletti”, si legge nello studio. “Le conseguenti agitazioni potrebbero variare dalle proteste violente e i crimini d'odio al confronto civile e al terrorismo. Oltre alle elezioni, le percezioni della realtà sono destinate a diventare più polarizzate, infiltrandosi nel dibattito pubblico su questioni che vanno dalla salute pubblica alla giustizia sociale. Tuttavia, con il venir meno della verità, aumenterà anche il rischio di propaganda e censura interna. In risposta a disinformazioni, i governi potrebbero essere sempre più autorizzati a controllare le informazioni in base a ciò che ritengono essere ‘vero’. Le libertà legate a internet, stampa e accesso a fonti più ampie di informazioni, già in declino, rischiano di degenerare in una repressione più ampia dei flussi informativi in un più vasto insieme di Paesi”.
Proprio per far aumentare la consapevolezza sull’importanza delle politiche legate allo sviluppo sostenibile in vista delle prossime elezioni europee (8-9 giugno), l’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS) ha pubblicato il nuovo quaderno “Obiettivi di sviluppo sostenibile e politiche europee. Verso il patto sul futuro”, presentato in anteprima al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Nel documento viene ricordato che la prossima legislatura europea sarà decisiva per confermare quanto fatto finora, per dare seguito al Green deal e per accelerare la trasformazione del sistema socioeconomico in chiave sostenibile.
Una trasformazione tanto importante quanto urgente, come conferma l’Agenzia europea per l’ambiente (European environment agency, Eea) che nei giorni scorsi ha pubblicato i risultati della prima valutazione europea dei rischi climatici. Ne emerge che l’Europa non è pronta ad affrontare le conseguenze della crisi climatica e che se non agiamo nell’immediato i danni saranno catastrofici. L’Agenzia si dice preoccupata anche delle ultime marce indietro sulle politiche climatiche europee. Un esempio è dato dalla direttiva sulle case green menzionata prima, e da alcune posizioni prese in merito alle prossime elezioni. Come quella del Partito popolare europeo, la più ampia rappresentanza presente oggi e molto probabilmente in futuro nel Parlamento europeo, che ha presentato il suo nuovo programma elettorale. Un documento programmatico che, nei fatti, rimette in discussione le strategie europee sulla biodiversità e i sistemi agricoli, le politiche industriali votate alla sostenibilità, e i target climatici approvati con fatica in questa ultima legislatura.
L’Eea ricorda inoltre che la protezione degli ecosistemi non rappresenta una scelta facoltativa: il loro degrado è una minaccia per la salute umana che si trasforma, per esempio, in meno acqua e meno cibo. Gli abitanti del Sud Europa – Italia compresa - rischiano di più di quelli del Nord, anche da un punto di vista medico. Malattie come la Dengue potrebbero infatti diventare endemiche nei nostri Paesi. E ancora: centinaia di migliaia di persone potrebbero morire per le ondate di calore nei prossimi anni, mentre le perdite economiche derivanti dalle sole inondazioni costiere potrebbero superare i mille miliardi di euro l'anno.
L’intreccio tra qualità dell’informazione, scienza e partecipazione ostacola sia l’attuazione sia la richiesta di politiche votate alla massimizzazione del benessere collettivo. Per identificare le reali soluzioni che servono a uscire dalle molteplici crisi che stiamo vivendo abbiamo bisogno di un dibattito trasparente e consapevole. La salute, democratica e non, dei nostri Paesi, rischia però di essere sacrificata sull’altare dell’informazione falsificata. E questo è un rischio che proprio non possiamo correre.