Editoriali
Ogni capo che abbiamo viene utilizzato in media solo sette o otto volte, dal Green friday si levano le iniziative contro il consumo eccessivo per i prezzi bassi. I costi nascosti dei nostri acquisti sull’ambiente e sulla salute.
di Flavia Belladonna
Una ragazza si fa faticosamente strada tra i vestiti appesi. Lo sguardo aggressivo di chi è pronto a sferrare un attacco. E poi eccola unirsi a un gruppo di persone che si contende gli abiti, strappandoseli di mano come se accaparrarseli fosse un’esigenza vitale.
È solo un assaggio delle scene tratte dal video di Wwf Italia “Il panda siamo noi”, che ritrae in maniera volutamente eccessiva una scena di shopping sfrenato, simbolo del Black friday, il periodo di sconti di origine americana che ha appena segnato l’inizio della stagione degli acquisti natalizi. Un racconto per immagini, tra l’ironico e il drammatico, che attraverso la provocazione della campagna vuole sollecitare la domanda: e se la prossima specie a estinguersi, attraverso le nostre azioni quotidiane, fossimo proprio noi?
Il video aiuta a fermarsi a riflettere sul paradosso di affannarsi a comprare i vestiti al prezzo più basso, per poi indossarli pochissime volte e buttarli velocemente. Tuttavia, c’è chi potrebbe ricordare che risparmiare, specialmente in tempi di crisi, è anche una necessità e non c’è nulla di male nell’approfittare degli sconti. Ci troviamo dunque di fronte a un’occasione o a una forma di consumismo?
Da qualche anno si sono diffuse alcune iniziative sotto il cappello di “Green friday” che, come è facile intuire dal nome, vogliono levarsi in difesa del verde e del Pianeta che ci ospita. Il Green contro il Black, il nero che starebbe a indicare secondo alcuni il traffico e il caos nei negozi generati dagli sconti, secondo altri il passaggio dai conti in rosso (perdite) dei commercianti a quelli in nero (guadagni).
Nato in Francia nel 2017, il Green friday ha preso piede anche in Italia raccogliendo l’adesione di numerose aziende che vogliono sensibilizzare i consumatori sull’importanza di acquistare in maniera consapevole, senza diventare vittime del consumismo. Tra le iniziative che ruotano intorno al Green friday troviamo il Buy nothing day, che consiste nel passare un giorno intero senza fare acquisti e boicottare di fatto il Black Friday; ma ci sono anche iniziative che colgono l’occasione per sollecitare gli acquisti di qualità rendendo i loro prodotti sostenibili, dare suggerimenti per allungare il ciclo di vita dei prodotti, promuovere il riuso e l'economia circolare.Ma come mai tutta questa “ostilità” al Black friday? Perché è considerato così un male dagli ambientalisti, quando dopotutto offre un’opportunità per noi consumatori di aiutare le nostre tasche? Per rispondere è importante capire i costi che si nascondono dietro al consumo eccessivo e conoscere le conseguenze del fenomeno del fast fashion, il modello di business che spinge a produrre e consumare velocemente, a prezzi bassissimi e con prodotti di bassa qualità.
L’aumento della produzione. Produrre un vestito comporta già di per sé elevate emissioni di gas serra (la produzione mondiale di tessuti produce in un anno più emissioni di carbonio di quanto ne producano i trasporti aerei e marittimi insieme), l’uso di grandi quantità d’acqua (per coltivare le materie prime come il cotone e trattare i tessuti), il consumo di suolo (per la coltivazione nei terreni) e l’inquinamento degli ecosistemi acquatici. Soddisfare una crescente domanda dovuto al calo dei prezzi richiede un maggiore sforzo di produzione, il che genera un consumo energetico e di risorse aggiuntivo. Prodotti o capi di abbigliamento molto economici, poi, nascondono l’utilizzo di materie prime di bassa qualità e additivi chimici. La produzione di capi misti o sintetici, ad esempio in poliestere, richiede grandi quantità di petrolio, una risorsa fossile non rinnovabile. Non stupisce, dunque, che l’industria tessile sia al quarto posto per l’impatto ambientale, dopo la produzione alimentare, l’edilizia e la mobilità. L’ASviS tra le sue attività si impegna ad accompagnare le aziende per orientarle verso percorsi di sostenibilità, ed è proprio in questo contesto che a marzo è nato il “Manifesto per la sostenibilità nel retail”, realizzato da Confimprese con l’Alleanza, per accompagnare 450 imprese coinvolte nella vendita al dettaglio verso modelli di business in linea con l’Agenda 2030.
Il traffico e l’inquinamento. Produrre di più richiede anche trasportare di più. Secondo un rapporto di Transport & Environment, durante il Black friday dello scorso anno i camion impiegati per trasportare i pacchi nei magazzini e nei negozi, in Europa, hanno generato il 94% di emissioni di CO2 in più rispetto a una settimana media. Ai mezzi di trasporto merci (anche per la consegna dei prodotti online), si sommano i veicoli privati dei cittadini. Se le domeniche ecologiche servono a limitare le emissioni per migliorare la qualità dell’aria, i venerdì neri, e in generale i periodi di saldi o di acquisti nei periodi festivi, vanno dunque nella direzione opposta. Quello delle emissioni rappresenta innanzitutto un serio problema per il surriscaldamento globale, su cui proprio in questi giorni i leader di tutto il mondo si stanno confrontando al vertice di Dubai sul clima, la Cop 28, a cui abbiamo voluto dedicare una finestra quotidiana con cronache e altri materiali. Ma le emissioni rappresentano anche un grave problema per la nostra salute, causando 53mila morti premature all’anno in Italia ed essendo correlate a patologie respiratorie e altre malattie gravi.
I costi di imballaggio. Il packaging dei prodotti produce grandi quantità da smaltire. Le confezioni, sempre più articolate per rendere anche il prodotto più attraente, sono ancora più difficili da differenziare. Non mi dilungo sul tema plastica, che è ben noto, ma vi lascio questa grafica animata di Reuters che mi è rimasta impressa dal 2019 per farvi una idea delle quantità che produciamo: ogni giorno il mondo genera, solo con bottiglie di plastica, l’equivalente di una torre Eiffel. Basta guardare il proprio secchio differenziato per vedere quanta altra plastica buttiamo, figuriamoci quella che non vediamo, contenuta ad esempio proprio nei vestiti.
L’impatto sociale. L’aumento della produzione non ha solo impatti ambientali. Da un lato c’è, ad esempio, il tema dello sfruttamento del lavoro e dei bassi salari; dall’altro ci siamo noi cittadini, che di fronte alla possibilità di consumare tanto rischiamo di cambiare il modo di relazionarci con le cose. Le strategie di marketing possono sottoporre i consumatori a stress di fronte all’urgenza di comprare. Il bisogno compulsivo di acquistare prodotti di cui in realtà non abbiamo bisogno può anche arrivare, nei casi più gravi, a trasformarsi in una vera e propria dipendenza.
Gli sprechi. Secondo Mckinsey, tra il 2000 e il 2014 la fabbricazione di abiti è raddoppiata e la quantità pro-capite di abiti acquistati dai cittadini è aumentata del 60%. Si tratta di un dato che dice molto sul cambiamento nelle abitudini di acquisto, frutto soprattutto dell’abbassamento dei costi di produzione. Un sovraconsumo, camuffato da affare, porta a usare più risorse di quelle che il nostro Pianeta sia in effetti in grado di garantire, non a caso “l’Earth overshoot day”, il giorno che segna l’esaurimento delle risorse rinnovabili che la Terra è in grado di rigenerare in un anno, arriva sempre prima. Le offerte a basso costo spingono i consumatori a comprare, senza pensare, anche beni non necessari o di scarsa qualità e quindi adatti solo per il breve termine, spingendo verso un’economia di consumo usa e getta. Basti pensare che ogni capo che abbiamo viene utilizzato in media solo sette o otto volte, mentre ogni anno in Europa vengono buttati circa 12 chili di indumenti a persona e di questi solo l’1% viene riciclato, il resto finisce negli inceneritori o nelle discariche dentro e fuori dall’Ue. Oggi la moda è il settore che esporta il maggior numero di rifiuti in Paesi extraeuropei, il 93,5% del totale. Tra le destinazioni finali troviamo il “cimitero della moda mondiale”: la discarica nel deserto di Atacama, in Cile, dove si sono formate negli anni autentiche “dune” composte dai vestiti invenduti provenienti da tutto il mondo. Un fenomeno di proporzioni così ampie che è valso, agli scarti della moda, l’appellativo di “nuova plastica”.
Ma come invertire la rotta e accelerare la transizione ecologica? Se lo sono chiesti i protagonisti della moda italiana nella seconda edizione del Venice sustainable fashion forum organizzato, il 26 e 27 ottobre, da Sistema moda Italia, The European House Ambrosetti e Confindustria Veneto Est. Secondo il rapporto "Just fashion transition 2023" presentato al forum, produrre un capo sostenibile sembra essere due volte più costoso rispetto a uno tradizionale, ma promette un guadagno fino a quattro volte superiore. Perché dunque il settore fatica a cambiare? La risposta va ricercata nel profilo del consumatore tipo di oggi: una persona che si dice attenta alla sostenibilità, ma non legge le etichette e compra compulsivamente capi della fast fashion online, secondo Carlo Cici, responsabile della Sostenibilità di The European House-Ambrosetti. Così, la moda green oggi sembra ancora non convenire alle aziende, sulla base delle scelte dei consumatori, considerato anche il momento in cui il potere di acquisto delle famiglie è così basso e la variabile energetica alta.
Bisogna agire sui consumi, dunque, come testimonia anche il Global circularity gap report, secondo cui nel 2023 solo il 7,2% dell’economia mondiale è stata circolare, in calo rispetto al 9,1% del 2018 a causa dell’aumento dei consumi più che di una effettiva diminuzione del riutilizzo dei materiali. In un articolo del Sole24Ore, Andrea Urbinati e Pierluigi Zerbino affermano:
“in un'economia circolare, le preferenze dei consumatori dettate da percezioni e valori personali possono influenzare i livelli di domanda, i quali inevitabilmente determinano gran parte delle emissioni inquinanti. Nel loop della circolarità, in cui l'utilizzo di materie prime vergini si scontra con l'utilizzo di materie prime recuperate, il comportamento dei consumatori può fare da ago della bilancia nel realizzare un'economia circolare davvero sostenibile”.
L’ASviS, nel suo Rapporto annuale, tra le trasformazioni necessarie per un cambiamento di paradigma verso la sostenibilità nei consumi individua proprio l’aumento della consapevolezza, delle conoscenze e della responsabilizzazione del consumatore. Proprio con questo obiettivo lanciammo nel 2019, sulla scia dei Fridays for future, i “Saturdays for future”: una grande mobilitazione basata sull’idea, lanciata da Enrico Giovannini e Leonardo Becchetti, di trasformare il sabato (quando la maggioranza delle persone fa la spesa settimanale) nel giorno dell’impegno per la produzione e il consumo responsabili, coinvolgendo consumatori, imprese e organizzazioni della società civile con iniziative su tutto il territorio italiano. L’iniziativa, interrotta poi dalla pandemia, puntava alla realizzazione di una vera e propria rivoluzione culturale, che come evidenziamo nel Rapporto 2023 oggi non può più basarsi solo sul messaggio “Good for the Planet”, che “rischia di incagliarsi per la bassa sensibilità di ampi strati della popolazione e una situazione economica complessa in cui le scelte di acquisto sono spesso basate sul criterio del prezzo minimo”, ma deve fondarsi sul rafforzamento del messaggio “Good for me”, aiutando a comprendere i benefici che la sostenibilità può offrire da subito al cittadino. Per trasmettere in modo credibile questo messaggio, però, va creato un sistema di incentivi in grado di motivare i consumatori verso l’adozione di comportamenti di consumo sostenibili, come l’applicazione della tariffazione puntuale o corrispettiva dei rifiuti, l’adozione di tariffe disegnate per premiare i consumatori che riducono i consumi eccessivi, il riconoscimento di agevolazioni fiscali (come accade in Francia per gli elettrodomestici e i prodotti tessili) per i consumatori che adottano pratiche che allungano la vita dei prodotti attraverso la riparazione e il riciclo.
Non va dimenticato che l’attuale modello economico è basato sui consumi. Se compreremo meno vestiti, condivideremo le automobili per usarle solo quando ci servono, modificheremo le nostre abitudini alimentari per ridurre gli sprechi, tutto questo potrebbe tradursi in una riduzione del Prodotto interno lordo, cioè del principale parametro che oggi misura la crescita di un Paese. Anche per questo è importante dare valore agli indicatori “oltre il Pil” che misurano diversamente il benessere collettivo. Va inoltre ricordato che c’è comunque spazio per una crescita dei consumi effettivamente necessari aiutando molti popoli dei Paesi in via di sviluppo a uscire dalla povertà. Anche se i Paesi più ricchi devono limitare i consumi, il modello economico rimarrebbe comunque vitale attraverso i trasferimenti al cosiddetto Sud del mondo.
Riguardo a quel che può fare ognuno di noi, la raccolta differenziata dei tessuti, che ad oggi non è un obbligo di legge ma lo sarà dal 2025 secondo la normativa europea, avviene principalmente su strada attraverso cassonetti (gialli, verdi o bianchi); dopo la raccolta gli abiti, che non vengono usati per beneficenza (la quale avviene tramite parrocchie o associazioni), sono rivenduti, trattati e riutilizzati, oppure smaltiti. Riguardo alle riparazioni, abbiamo perso l’abitudine a rammendare e aggiustare, complice anche la velocità dei ritmi odierni, che invece contribuirebbe a risparmiare. Di fronte alla tentazione dei prezzi bassi, poi, ci siamo abituati a comprare prodotti di bassa qualità, che però dopo poco tempo ci ritroviamo a dover ricomprare, mentre sentiamo le generazioni più anziane dire: “Eh, le lavastoviglie un tempo duravano 30 anni” o “Queste scarpe ce le ho da 20 anni e non si sono ancora rovinate”. Mentre il sistema deve impegnarsi a sensibilizzare i cittadini, noi consumatori dovremmo cominciare a chiederci, aprendo l’armadio: “ho davvero bisogno di tutte queste cose? Quante non ne uso da anni? Cosa posso aggiustare? Ho comprato prodotti di qualità e dalla vita lunga?”
I bassi prezzi possono anche rappresentare un’occasione da cogliere per dare seguito a una lista di necessità che da tempo si volevano comprare, ma il consumo eccessivo e scelte che apparentemente fanno risparmiare possono far pagare un caro prezzo alla natura e alla nostra salute. Come ricorda Wwf Italia, infatti, “Il Pianeta non fa sconti”.
Fonte copetina: Wwf Italia