Editoriali
Educare, educare, educare: questa la chiave per contrastare ogni forma di violenza
Mentre si inaspriscono le pene contro la criminalità, il dibattito pubblico si concentra sul ruolo prioritario dell’educazione. Formare i giovani su sessualità, diversità e contrasto agli stereotipi per eradicare la cultura della violenza.
di Flavia Belladonna
“Se un figlio o una figlia sbaglia, è giusto punirlo? E come?”
Ci sono genitori che preferiscono sgridare usando un tono severo, altri urlando; alcuni optano per un castigo breve o lungo, altri ancora minacciano o danno uno sculaccione. C’è anche, purtroppo, chi picchia o umilia, così come c’è il genitore assente e indifferente. Tante modalità diverse, frutto della storia di ognuno: di come i genitori a loro volta sono stati educati, dei contesti in cui sono cresciuti, del livello di istruzione, dei valori, ma anche di istinto e rabbia.
Quando sono diventata madre e mi sono posta la questione, sono rimasta sorpresa nello scoprire l’evoluzione educativa sul tema. Sulla scia del metodo Montessori, nuovi modelli meno punitivi e più fondati sul dialogo e sulla sperimentazione delle conseguenze delle azioni. Non per questo permissivi, al contrario basati sulla disciplina. Secondo Uppa, casa editrice specializzata nei temi della genitorialità, i modelli fondati sulle punizioni, soprattutto fisiche, porterebbero il bambino a interrompere temporaneamente i comportamenti, ma senza interiorizzare la regola educativa, rischiando di far sviluppare rabbia, rancore, perdita di fiducia in sé e nell’educatore, nonché la possibile ripetizione dell’errore. I modelli educativi alternativi a quello tradizionale, invece, sembrano andare verso la comprensione delle cause per individuare soluzioni insieme al figlio e offrire la possibilità di rimediare, abituando i bambini ad agire non per timore delle punizioni (o, viceversa, per poter avere una ricompensa), ma fornendo loro gli strumenti per diventare consapevoli della correttezza delle proprie azioni.
Ci sono casi di ragazze e ragazzi che crescendo incorrono in errori così gravi da rappresentare dei reati. Sebbene la conseguenza debba comportare inevitabilmente una pena, garantendo anche giustizia alla vittima, il dibattito dell’ultimo periodo sul contrasto alla criminalità e la violenza sulle donne riflette la difficoltà di consenso della nostra società su quanto e come punire i responsabili. Tuttavia, si possono trarre diverse riflessioni dal dibattito e insegnamenti dall’evoluzione del modello educativo.
Di fronte a un errore, la tentazione è voler punire con forza per assecondare la rabbia, sentire di avere controllo sulla situazione e generare paura affinché lo sbaglio non sia ripetuto. La storia umana, segnata da pratiche di tortura, ci insegna che l’istinto è rispondere alla violenza con altrettanta violenza, ma mentre vendicarsi con forza promuove una cultura dell’odio, educare genera una cultura del rispetto. Dalla storia abbiamo imparato anche che un aggressore difficilmente si ferma al pensiero della pena che lo attende, specialmente se proveniente da ambienti culturalmente poveri e degradati.
In un’intervista su La Stampa, il fondatore di Libera Don Luigi Ciotti, protagonista della lotta alla mafia, sostiene che “sbaglia chi pensa a ‘interventi repressivi’ per affrontare il preoccupante aumento di reati e violenze tra i minorenni. Arrestarli, chiuderli in carcere, inasprire le pene ‘non è la soluzione’”. In Germania, Francia e Inghilterra il numero dei minori in carcere è ben superiore che in Italia, ha sottolineato, eppure “non c’è stato un effetto deterrente”. Questo non vuol dire che “non sia giusto e doveroso inchiodare chi sbaglia, anche i ragazzi più giovani, alle proprie responsabilità. Ma poi c’è anche la messa in prova, l’accompagnamento, percorsi che portano più risultati, rispetto a interventi repressivi calati dall’alto e dettati dalla paura. Io alla politica della forza preferisco la forza della politica”.
Secondo i dati di Antigone, a marzo 2023 erano 380 i ragazzi tra i 14 e i 25 anni detenuti negli Istituti penali per minorenni (Ipm), di cui 180 minori di 18 anni e quasi la metà stranieri. L’associazione denuncia lo sbilanciamento tra stranieri e italiani presenti in carcere, dovuto spesso non a una maggiore gravità dei reati commessi ma alle minori garanzie relazionali a supporto, come quella famigliare. Antigone sottolinea poi l’inadeguatezza delle strutture per i minori: le visite prolungate in alcune carceri non sono mai state effettuate per mancanza di spazi, le sezioni a custodia attenuata sono risultate sostanzialmente inesistenti ed è mancato l’intervento di sistema “capace di aprire il carcere al territorio esterno, facendo uscire i ragazzi in raccordo con il mondo della scuola, della formazione, del lavoro, dell’assistenza sanitaria, dei servizi sociali territoriali, immergendoli così in un contesto di normalità”, con il fine ultimo di puntare alla rieducazione.
Far derivare delle conseguenze alle azioni irresponsabili è un passaggio certamente necessario, ma è una misura che interviene a posteriori e rappresenta solo uno dei tanti tasselli che compongono il quadro complessivo. Nella gestione di uno sbaglio, un genitore con un figlio o uno Stato con i propri cittadini dovrebbe adottare un approccio integrato che tenga conto di tutti gli elementi: regole chiare da rispettare (leggi e misure), educazione (prevenzione), conseguenze (pene), modalità per rimediare (reinserimento), comprensione della causa profonda per far sì che non si ripeta (politiche per curare il male alla radice). In questo processo, insieme alle istituzioni, tutti gli attori coinvolti nell’educazione giocano un ruolo chiave.
Educare alla non violenza è una sfida che riguarda tutta la società. Con le recenti cronache si sono riaccesi i riflettori sul malessere dei giovani nelle periferie, segnate da disagio economico, esclusione sociale, carenza di servizi e povertà educativa, che possono farci chiedere se le rivolte violente nelle banlieau francesi di quest’estate un giorno potranno non sembrarci più poi così lontane. Occorre dunque intervenire sulle radici del malessere prima che sia troppo tardi. Ma parallelamente alla realtà dei quartieri più disagiati, si assiste anche a comportamenti devianti nella quotidianità che interessano ogni fascia della popolazione, attraverso i social e non solo. La questione da approfondire, dunque, è come affrontare quello smarrimento generale nei valori e generare consapevolezza.
In un film di Ivano De Matteo, dal titolo “I nostri ragazzi”, lo spettatore viene messo davanti a un dilemma interessante: come comportarsi di fronte a una colpa grave del proprio figlio, sgridarlo ma difenderlo, oppure denunciarlo come forma di educazione? Oltre a generare opinioni divisive, riflesso dei diversi modi di educare, ciò che colpisce è l’incapacità dei due giovani protagonisti di capire la gravità delle azioni e di prenderne coscienza.
Secondo un recente sondaggio di Ipsos per Actionaid, condotto su un campione di adolescenti tra i 14 e i 19 anni, per quattro giovani su cinque una donna può sottrarsi (se vuole) a un abuso, mentre uno su cinque non ritiene che toccare le parti intime altrui senza consenso sia violenza e crede che le ragazze possano provocare la violenza sessuale con un abbigliamento o atteggiamento provocante. Viene sottolineato, inoltre, che i motivi per cui si diventa vittime di violenza sono legati soprattutto alle caratteristiche fisiche (50%) e all’orientamento sessuale (40%). Educare alla sessualità, al rispetto della diversità e al contrasto agli stereotipi appare dunque fondamentale per minare le fondamenta della cultura della violenza.
In attesa dell’avvio dell’educazione sessuale annunciata dal ministro dell’Istruzione Valditara (l’Italia è uno degli ultimi Stati membri dell’Ue in cui l’educazione sessuale non è obbligatoria a scuola), ActionAid ha chiesto intanto sforzi maggiori:
“La proposta del Ministro Valditara di introdurre l’educazione sessuale nelle scuole superiori non può bastare: è necessaria una formazione obbligatoria co-progettata per docenti e studenti di tutti i cicli scolastici con personale esperto autonomo e laico, la presenza a scuola di tutor per la prevenzione e la gestione dei casi; vanno introdotti dei codici anti-molestia, dei bagni neutri e delle carriere alias (ndr: la possibilità per gli studenti transgender di usare il nome scelto in classe). Chiediamo che il Ministero dell’Istruzione e del Merito trasformi in politiche concrete queste proposte: vogliamo l’integrazione del Piano nazionale di educazione al rispetto del 2017 e fondi stabili per spazi e supporto psicologico, che devono essere presenti in ogni istituto scolastico”, ha affermato la responsabile Education Maria Sole Piccioli.
La formazione deve coinvolgere tutte le figure educative, dal personale scolastico e sportivo ai docenti, che devono essere preparati ma anche messi nelle condizioni di lavorare con continuità (in classe un insegnante su quattro è supplente). La formazione è necessaria anche per gli operatori sanitari e quelli sociali, e poi per le stesse famiglie, che attraverso libri, seminari e incontri, possono capire meglio i problemi dei propri ragazzi e imparare nuove modalità comunicative per rafforzare il dialogo con loro.
Infine, l’educazione all’umanità. “Per salvare i giovani coltiviamo l’umanità”, titola un articolo a firma di Chiara Saraceno in cui si legge: “L' umanità, come modalità di essere, sentire, vivere, stare in relazione con altri, non è un dato per scontato, che fluisce naturalmente dalla biologia. Va coltivata, fatta fiorire e accudita in se stessi e negli altri, perché rimanga vitale ed anche perché non rimanga un esercizio selettivo, che distingue tra chi ha diritto di godere e di vedersi riconosciuta la pienezza dell'umanità e chi invece è considerato sub-umano, nei fatti e talvolta anche nelle norme”.