Approfondimenti
E se applicassimo gli Inner development goals alla filantropia?
di Elisa Ricciuti, docente, ricercatrice, progettista e consulente per la sostenibilità integrale
Spunti sulle competenze transformative per lo sviluppo sostenibile e suggerimenti concreti per fondazioni, filantropi e donatori per la generazione di impatto positivo.
6 marzo 2024
Questo contributo mira a offrire spunti a fondazioni e donatori sul quadro di riferimento degli Inner development goals (IDGs)[1] e sul perché essi possono contribuire ad accelerare l’impatto dell’azione filantropica. Ciò viene fatto elencando tre argomenti tipici della critica alla filantropia e cercando di controbattere utilizzando come opportunità la riflessione interiore relativa ad alcuni ambiti del quadro. Questi argomenti vengono poi tradotti in suggerimenti concreti da mettere in pratica per guidare il cambiamento in modo non (o meno) traumatico dal punto di vista organizzativo.
Il framework degli IDGs si riferisce a competenze, qualità e abilità: non sono nè innate, né possedute da persone talentuose, ma possono essere allenate, promosse ed esercitate da tutti. Questo significa che, se adeguatamente allenate all’interno di una cultura di sostegno e supporto allo sviluppo individuale e collettivo, le organizzazioni possono progettare sistemi per condividere i loro effetti positivi e trasformarli in potenti strumenti per influenzare il cambiamento organizzativo.
In che modo gli IDGs possono essere utili per la filantropia?
Argomento 1 – Le fondazioni sono conservatrici. L’innovazione radicale è difficile da realizzare, poiché le forze decisionali sono spinte a mantenere lo status quo.
Una riflessione basata sulla consapevolezza di sè aiuterebbe i leader a rafforzare la coerenza tra le decisioni (strategia) e l’azione (operatività). Il (ri)allineamento tra ciò in cui l'organizzazione crede (valori, visione), ciò che fa (strategie, azioni, erogazioni) e ciò che dice (comunicazione e pratiche di stakeholder management) è il punto di partenza per costruire un'azione solida ed evitare “passi falsi” (come l’impactwashing). Sono fedele al cambiamento che sto promuovendo? Voglio davvero cambiare? Sono pronto ad abbracciare un dibattito su come posso cambiare e innovare, prima di chiedere innovazione e cambiamento agli altri? Questo genere di domande può aiutare gli organi di governance delle fondazioni a:
- supportare il processo di strategy refresh (quel processo di riflessione sulle strategie che tipicamente avviene alla conclusione di cicli lunghi di programmazione, 3/5 anni);
- rivedere le strategie di comunicazione dell’impatto e del cambiamento all’interno e verso l’esterno.
Un secondo aspetto dell’attitudine filantropica alla conservazione risiede nella cosiddetta “trappola donatore-beneficiario”: è difficile riequilibrare il potere e il rischio che i beneficiari rimangano dipendenti dai donatori è elevato. La composizione degli organi di governance ha molto a che fare con il pensiero critico organizzativo e la capacità di prospettiva, fondamentali per promuovere il legame con le persone che le fondazioni sono lì per sostenere: c’è qualcuno che abbia potere decisionale che provenga direttamente dal contesto che la fondazione sostiene con la sua azione? Se, ad esempio, una fondazione ha come obiettivo strategico l’investimento sulle nuove generazioni, è in grado di aprire il proprio Consiglio di Amministrazione ai giovani?
Chi siede ai tavoli decisionali delle fondazioni può riflettere su questo per:
- investire maggiori risorse su strumenti e pratiche Jedi (giustizia, equità, diversità e inclusione);
- riformare gli organi di governance: sperimentare nuove inclusioni, monitorarne gli effetti e condividere gli apprendimenti.
La terza riflessione riguarda l’equilibrio tra intenzionalità e reattività. I cosiddetti approcci reattivi e proattivi sono oggi molto dibattuti nel campo della filantropia. I donatori proattivi innovano il loro modello di erogazione creando partenariati forti e generativi con i cosiddetti “beneficiari” nei contesti di definizione dell’agenda dei problemi da risolvere, partenariati che possono essere anche molto ampi, includendo istituzioni, mondo della ricerca e altri attori territoriali. Riflettere sulle radici profonde della dimensione collaborativa e sulla fiducia nei territori, sulle capacità di mobilitazione e anche quelle di co-creazione possono aiutare concretamente la leadership delle fondazioni a:
- sostenere una discussione più aperta sulla capacità delle fondazioni di creare contesti partecipativi e garantire sistemi di governance partecipativa;
- potenziare l'apprendimento, favorirela cross-fertilization di pratiche di governance partecipativa e di modelli basati sulla fiducia (trust-based) non solo come metodo, ma come dimensione specifica di impatto delle fondazioni.
Argomento 2 – Le fondazioni filantropiche non si assumono abbastanza rischi e il loro capitale non è davvero paziente (orientato al lungo termine). Tendono a cadere nella trappola a breve termine per dimostrare di poter ottenere un (rapido) impatto.
Si discute molto sull’attitudine al rischio delle fondazioni. Gran parte del dibattito sulla filantropia nell’ultimo decennio ha riguardato il loro potenziale di azione come policy entrepreneurs, cioè l’utilizzo del proprio capitale per testare modelli innovativi e scalabili. D’altro canto, le fondazioni sono anche spesso criticate come le organizzazioni più antidemocratiche esistenti nelle democrazie moderne, avverse al rischio e incapaci di dare quanto potrebbero (un argomento generalmente giustificato dall’enorme squilibrio tra i patrimoni e la capacità erogativa). Una riflessione sulle competenze legate al rafforzamento della propensione al coraggio e alla creatività, sosterrebbe lo sviluppo di una mentalità collaborativa e orientata all’apprendimento e aiuterebbe la leadership delle fondazioni a:
- riequilibrare il profilo di rischio della fondazione;
- avviare una discussione pubblica sul modo in cui gli sforzi filantropici possono scalare l'innovazione creando partenariati forti e generativi con il settore pubblico e la comunità in generale.
L’attitudine al rischio può essere ricollegata al vero perchè delle organizzazioni filantropiche. Qual è il senso di tutto ciò? Qual è lo scopo della filantropia? Queste domande, solo apparentemente vaghe, hanno conseguenze molto concrete per le organizzazioni filantropiche, come la storia dimostra nel dibattito tra fondazioni c.d. perpetue (in-perpetuity) e fondazioni spend-down. Il modello spend-down è abbastanza recente nella storia della filantropia (circa 20 anni fa), contrariamente a quanto avveniva nella filantropia “tradizionale” dove l’esistenza perpetua delle fondazioni era data per scontata. Come le fondazioni si immaginano la propria durata nel tempo? Esiste un compromesso tra l’essere sempre presenti per rispondere ai bisogni delle persone e “ottenere il massimo impatto possibile”? Una riflessione sulla capacità di attribuzione di senso può aiutare concretamente un leader a:
- riprogettare le metriche di impatto della fondazione condividendole con tutti i lavoratori sin dall'inizio;
- riprogettare la narrativa di impatto della fondazione, utilizzando uno storytelling coerente con le proprie decisioni di impatto.
Infine, una riflessione sull’attitudine al rischio non può nascondere il suo rapporto con una leadership coraggiosa e la capacità di assumere posizioni scomode. Le fondazioni sono ben posizionate per essere agenti di cambiamento nella narrativa attuale poiché hanno risorse da spendere in modo abbastanza rapido e senza vincoli. Cos’è quindi il cambiamento sistemico? E quali metriche di impatto utilizzano le fondazioni per valutare i cambiamenti sistemici? Una riflessione approfondita su questi aspetti aiuterebbe i leader delle fondazioni in modo molto concreto a:
- includere metriche di cambiamento sistemico nel proprio agire;
- incorporare temi di sviluppo di leadership sostenibile – come la gestione della complessità – nei programmi di formazione per leader e manager in ambito filantropico;
- incorporare il cambiamento sistemico e le competenze di leadership sostenibile nei programmi di formazione dei lavoratori, a tutti i livelli.
Argomento 3 – Da un lato ci sono le fondazioni, dall’altro i beneficiari. I meccanismi in atto per gestire la relazione donatore-beneficiario sono tipicamente basati sul monitoraggio e sul controllo: infatti, lo sforzo di avvicinamento tramite meccanismi partecipativi è tuttora percepito come molto oneroso.
Sebbene qualità come l’empatia e la compassione spingano a restringere la dicotomia donatore-beneficiario, le fondazioni moderne sono state progettate come “burocrazie del dare”, dove le regole sono pubbliche e i processi di richiesta sono altamente strutturati (bandi),, tutelando in qualche modo coloro che lavorano nelle fondazioni dalle continue e informali richieste di sostegno. Questo non è problematico di per sé. Tuttavia, se le fondazioni percepiscono il loro ruolo come agenti o facilitatori di cambiamento, piuttosto che come donatori, sono esse in grado di progettare meccanismi più flessibili, agili e meno onerosi per ascoltare e coinvolgere le comunità? Una riflessione profonda in tal senso può aiutare le fondazioni a:
- modificare i linguaggi, interrompendo il riferimento a “beneficiari” o “destinatari” e utilizzando nuovi termini e narrazioni più coerenti con meccanismi trust-based legati a nuove modalità di sostegno;
- riprogettare le proprie pratiche di coinvolgimento, mettendo in atto meccanismi di feedback da comunità a donatori e processi per incorporare i feedback nella revisione delle pratiche erogative.
Come ultimariflessione, va ricordato che in un tipico rapporto di agenzia come quello donatore-beneficiario, il donatore ha una posizione di potere rispetto alla controparte più debole. Un buon inizio per immaginare diversi modi di relazionarsi sarebbe chiedersi: mi sento a mio agio nell’ascoltare gli altri in qualsiasi posizione io mi trovi o ho bisogno di avere un ruolo? Sono pronto a collaborare davvero con qualcuno che ha prospettive così diverse dalla mia? Una riflessione scaturita da queste domande influenzerebbe il rapporto con tutti coloro che si rivolgono a un “agente” nella posizione del donatore. Questa riflessione può portare una fondazione a :
- riflettere sulle pratiche non discriminatorie (a partire dalla lingua) all'interno della fondazione e verso l’esterno;
- incentivare la collaborazione tra pari e il dialogo con altre fondazioni, per condividere le possibili sfide che le fondazioni hanno in comune, nel tentativo di riunire prospettive diverse.
Conclusione: buone notizie
Questo breve contributo ha l’obiettivo di avviare una riflessione sulla filantropia applicando il framework degli IDGs rispetto ad alcune delle critiche tipiche che affliggono il settore, senza alcuna presunzione di completezza. La riflessione è incentrata su qualità, abilità e competenze, tutte cose che possono essere allenate e praticate. “Poiché le competenze trasformative necessitano di una cultura aperta, ricettiva e abilitante per emergere, le capacità individuali e la cultura del supporto allo sviluppo di tali capacità devono crescere parallelamente. Lo sviluppo interiore è un processo collettivo e culturale, che si esprime in ultima analisi nella costruzione di una comunità al servizio del bene comune”[2].
[1] Per un approfondimento sul framework: www.innerdevelopmentgoals.org
[2] Fonte: Going deeper 2023, IDGs.
Nella sezione “approfondimenti” offriamo ai lettori analisi di esperti su argomenti specifici, spunti di riflessione, testimonianze, racconti di nuove iniziative inerenti agli Obiettivi di sviluppo sostenibile. Gli articoli riflettono le opinioni degli autori e non impegnano l’Alleanza. Per proporre articoli scrivere a redazioneweb@asvis.it. I testi, tra le 4mila e le 10mila battute circa più grafici e tabelle (salvo eccezioni concordate preventivamente), devono essere inediti.