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Un mare di plastica: oltre 5mila miliardi di tonnellate disperse negli oceani
Diverse ricerche commissionate dall’Unep affrontano gli effetti dell’inquinamento marino da plastiche. Le microparticelle penetrano anche negli organi dei pesci che arrivano sulle nostre tavole.
Secondo lo studio effettuato da Greenpeace per conto dell’Unep (United Nations Environment Programme) “Plastic Debris in the World’s Oceans”, i rifiuti marini provengono all’80% dalle produzioni antropiche, di cui circa il 40% è plastica (secondo il National Geographic si tratterebbe di oltre 5mila miliardi di tonnellate), i cui effetti dannosi sono percepiti a differenti livelli.
L’intrappolamento di alcune specie marine è tra i primi effetti collaterali. Rifiuti, come reti da pesca e packaging ad anelli di plastica, possono provocare la morte per soffocamento, annegamento, strangolamento, inedia a causa dell’incapacità di alimentarsi e per lesioni. Un altro fenomeno che si sta diffondendo è la “pesca fantasma”: reti da pesca abbandonate o perse continuano a catturare grandi quantità di organismi marini, anche se non sono più in uso. È stata provocata cos, una grave riduzione dello stock ittico con conseguenti perdite economiche. Inoltre le plastiche, essendo molto leggere, fungono da mezzo di trasporto di microorganismi in luoghi in cui non sono nativi, dove potrebbero compromettere l’integrità dell’ecosistema.
Tra le altre cause di danni ambientale connessi allo smaltimento dei rifiuti in acqua, troviamo l’avvelenamento della fauna marina per ingestione di plastiche. Molti individui, appartenenti a specie diverse (tartarughe e uccelli marini per primi), confondendo le buste di plastica o altri rifiuti per prede, li ingeriscono provocandosi la morte per soffocamento o blocco del tratto digerente. Le micro e le nano plastiche (frammenti di dimensione inferiore rispettivamente ad un millimetro e a un micron), inoltre, vengono assorbite in enormi quantità da tutti gli organismi marini che assorbono ingenti quantità di acqua e fungono da filtri. L’assimilazione di tali particelle, è stato studiato, compromette le naturali capacità fisiologiche di questi animali, non riescono ad espellere la plastica per via naturale. Ricerche effettuate in questo campo hanno trovato interi apparati digerenti compromessi da pezzi di plastica.
Anche gli uccelli marini cascano nell’errore di procacciarsi “cibo” di plastica che, poi, propongono ai propri pulcini causando loro l’avvelenamento (e spesso la morte).
Ma i danni dell’inquinamento marino non si fermano all’ecosistema ittico, si estendono addirittura anche a quello umano. Le nanoplastiche, infatti, possono perfino penetrare negli organi dei pesci che poi portiamo sulle nostre tavole.
Anche l’economia risente moltissimo di questa tipologia di inquinamento. Oltre alla sempre più ampia diminuzione dello stock ittico, anche il turismo balneare sta subendo gravi perdite.
Per questi e per altri motivi, persone, associazione e istituzioni si sono spinti sempre di più alla ricerca di soluzioni a questo problema.
Nel rapporto del 2016 dell’Unep “Marine Plastic Debris and Microplastics”, tra le varie proposte, si suggerisce un’attenta educazione ed informazione della popolazione circa i rischi derivanti dall’inquinamento delle sostanze rilasciate dalle plastiche e sull’importanza del corretto smaltimento di queste. In un articolo sul sito di informazione scientifica Futurism si parla di associazioni come quella di Plastic Change, le quali tramutano queste parole in fatti utilizzando, da più di 10 anni, tecnologie avanzate, come una rete a forma di manta capace di collezionare dati circa la percentuale di microplastiche presenti in una data area. Una risposta univoca a tutte queste problematiche ancora non è stata trovata, ma la tutela degli oceani dai rifiuti è il primo target del Goal 14 degli SDGs.
di Giulia D’Agata